
A sei anni dal secondo capitolo, Chris Tucker e Jackie Chan tornano nei panni di Carter e Lee, i due poliziotti casinisti che stavolta si trovano alle prese con la mafia cinese.
Dopo Rush Hour 2, Chris Tucker, Jackie Chan e il regista Brett Ratner hanno trascorso sei anni a rifiutare vagoni di soldi per girarne il sequel. Visto che si tratta di grandi cifre e che Jackie Chan ha 53 anni, devono aver deciso di non rischiare che il pozzo si esaurisse. E così ecco Rush Hour 3, nuova avventura di Carter-Tucker, il poliziotto casinista di Los Angeles che parla tanto da sembrare il fratello nero del Ciuchino di Shrek , e Lee-Jackie Chan, asso della polizia di Honk Kong che ha di nuovo la ventura di essere il suo partner. I due si ritrovano a combattere contro le Triadi (la mafia cinese, ormai più cinematografica di quella siciliana) a Parigi dove tentano di uccidere l’ambasciatore di Honk Kong, vecchio amico di Lee che non a caso faceva parte della sua scorta. Poco alla volta si scopre che l’ambasciatore avrebbe voluto testimoniare contro le Triadi, che di mezzo ci sono sua figlia, una ragazza francese che è uno spettacolo, una lettera, un gigantesco cinese specializzato in kung fu interpretato dall’asso del basket [Yao Ming]. Film come Rush Hour hanno successo perchè rispettano una formula: in questo caso Carter combina casini, si mette nei guai, non sta zitto un attimo e spara un ugual numero di pallottole e battute. Lee è un mago delle arti marziali. Jackie Chan è famoso per non usare stunt: c’è chi dice malignamente che lo fa per poter aver a disposizione immagini del backstage con lui che saluta mentre lo portano all’ospedale da mandare durante i titoli di coda. C’è pure qualcuno ancora più malizioso, che sostiene che l’età l’ha consigliato di ricorrere agli stunt. Dimenticandosi che se proprio ne avesse avuto bisogno, oggi con il computer si fa tutto. Anche evitare le voci dal set. Resta il fatto che Jackie Chan fa delle cose da rimanere senza fiato, soprattutto se si pensa che ha 53 anni. La sua capacità di compiere acrobazie scalando i muri e l’abilità (e la resistenza) nel girare scene di inseguimenti sono la spiegazione migliore del suo clamoroso successo. Sembra strano dirlo ma il fatto che sia ambientato a Parigi, contribuisce a rendere più attraente Rush Hour 3. Film del genere di solito sono ambientati o nelle metropoli americane o a Singapore o Honk Kong. I grattacieli sembrano fatti apposta per essere devastati da gente come Turner e Lee. Parigi appartiene a quella parte di mondo che non siamo abituati a vedere esplodere.
Paolo Biamonte