Aggiornato il Gennaio 10, 2013 da Il Guru dei Film
Il celebre western con un pistolero che trascina una bara lungo la strada della vendetta.
Il misterioso Django, un pistolero con la divisa nordista, giunge in un paese al confine con il Messico dominato da due fazioni contrapposte. Django si stabilisce nel saloon insieme alla bella Maria che ha salvato da un’aggressione. L’uomo sembra avere un conto in sospeso con il maggiore Jackson, un razzista sudista a capo di una masnada di violenti, trova quindi un accordo con la banda rivale dei rivoluzionari del generale Hugo Rodriguez, quest’ultimo contento dell’eliminazione di diversi uomini al servizio di Jackson per mano del solitario straniero.
Da sempre “Django”, nonostante la grande fama, gravita nel limbo delle pellicole più nominate che viste, colpa anche di una scarsa diffusione nei decenni scorsi, il western diretto da Sergio Corbucci è uno dei titoli fondamentali all’interno del genere (non solo italiano), quello che ha portato alle estreme conseguenze le premesse di violenza e crudeltà viste nei film di Sergio Leone. E proprio dai film dell’illustre collega Corbucci sembra prendere spunto, a partire dalla trama, un pistolero che si inserisce tra due fazioni, come in “Per un Pugno di Dollari” (1964), anche il Django interpretato da Franco Nero ricalca i pistoleri solitari di Clint Eastwood, ma da subito il regista si distacca per uno stile glaciale e cinico, lo stesso che lo conduce alla realizzazione del successivo (altro) capolavoro: “Il Grande Silenzio” (1968). Se i film di Leone sono solari e di grande respiro, le opere di Corbucci sono al contrario plumbee e opprimenti, pervase dal pessimismo, come in “Django”.
Come capita spesso nel cinema il film è passato alla storia (anche) per una semplice un’intuizione: accompagnare al protagonista la presenza di una bara, inquadrata sin da subito nei titoli di testa dove Django la trascina lungo un sentiero di fango. All’interno di essa, una sorpresa che viene svelata poco dopo l’inizio, si trova una micidiale mitragliatrice che Django non manca di utilizzare per seminare dei massacri. Con poche immagini Corbucci delinea il tono dell’intera pellicola, abbiamo un eroe solitario lugubre mentre il fango avvolge tutto, i vestiti e le scenografie, del resto tutti i personaggi si macchiano/sporcano di qualcosa ma, soprattutto, dei loro spregevoli comportamenti. La fotografia di Enzo Barboni, il futuro regista di “Lo Chiamavano Trinità”, accentua l’atmosfera dark-gotica ma, come ebbe modo di spiegare con una dichiarazione divertente lo stesso Barboni, durante i giorni delle riprese la luce era talmente pallida e scarsa da avere creato un cupo effetto di minaccia incombente.
Per gli standard dei tempi, metà anni 60, il film è uno shock per la violenza profusa, si inizia con le giovani carni insanguinate di una donna, presa a frustate da un manipolo di sadici messicani, anche se la scena più ricordata è quella del taglio dell’orecchio di un poveraccio (il prete corrotto interpretato da Gino Pernice), mostrato nei dettagli e fatto poi ingoiare dalla vittima. Un altro momento che non si dimentica è lo spappolamento delle mani di Django, ridotte a brandelli sanguinanti dagli zoccoli dei cavalli. In generale il film è pieno di morti ammazzati e le inquadrature sulle ferite che fanno sgorgare il sangue sono più insistite rispetto alle pellicole del periodo, come per es. quelle di Leone, le riprese a spalla della lunga lotta nel saloon conferiscono ulteriore realismo. Il film vive sul magnetismo di Franco Nero e del suo impassibile personaggio, l’attore inizia una carriera importante anche se forse non riuscirà mai a ripetere un ruolo così riuscito, diventa un’icona istantanea e riconosciuta. Quasi 20 anni dopo Nero riprende il ruolo di Django nel bislacco ma divertente sequel “Django 2 : Il Grande Ritorno” (1985).
“Django” è un grande western che mette il protagonista armato di mitragliatrice a confrontarsi con ben due villains distinti, l’eroe ha una vendetta personale da consumare e il principale obiettivo nel maggiore Jackson (Eduardo Fajardo), un leader a capo di un gang razzista di incappucciati, un uomo spietato e freddo a cui interessa solo la ricchezza, anche il generale dei peones rivoluzionari (José Bodalo) non è da meno, nonostante l’aria bonaria, uno che non ci pensa due volte a torturare a morte la gente. Tra i due fuochi si vedono le donne del bordello gestito dal pavido Nathaniel di Angelo Alvarez, tra le quali spicca la Maria di Loredana Nusciack, la bella attrice é uno dei pochi e perdonabili punti deboli, insieme ad alcune forzature di sceneggiatura, per via di una prova poco coinvolgente, troppo distaccata. Il finale nel cimitero nei pressi di una tomba è una fantastica resa dei conti originale, piena di sofferenza e violenza come lo spirito che pervade l’intero film. A completamento si segnala l’eccellente colonna sonora di Luis Bacalov, che firma anche la splendida canzone main-theme omonima “Django” cantata da Rocky Roberts. Uno dei titoli più leggendari del nostro cinema.
Paese: Italia
Rating: 9/10