Aggiornato il Ottobre 30, 2009 da Il Guru dei Film
Torna Michael Moore con il suo cinema di denuncia, sospeso tra documentario e tagliente ironia da stand up comedian. Stavolta il suo obiettivo sono i meccanismi che hanno portato al disastro la finanza e l’economia mondiali e il dramma della Sanità negli Usa.
Nonostante ormai esistano gruppi di opinione di gente che odia Michael Moore, stavolta il regista di Bowling a Columbine (Oscar per il documentario nel 2002) e di Fareneith 9/11 (Palma d’oro a Cannes nel 2004) ha trovato il critico più insidioso proprio nella cronaca. La forza del suo cinema sta nello svelare aspetti sconosciuti della realtà: il criminale mercato delle armi negli Usa che, alimentato da lobby potentissime (ben rappresentate da Dick Cheney, l’ex vice presidente degli Usa e gran burattinaio della Casa Bianca di George W. Bush) che, combinato con il disagio giovanile, porta alle stragi nei campus, l’incredibile confusione e la tragicomica inadeguatezza di Bush Jr nelle ore terribili dell’ 11 settembre e tutti gli interrogativi legati alla guerra al terrorismo e al disastro dell’Irak. Le spaventose distorsioni del sistema sanitario che sono al centro di Sicko, il suo film del 2007.
Capitalism: a love story racconta vari aspetti della crisi mondiale. Il problema è che Moore aveva cominciato a lavorarci prima che la catastroge finanziaria esplodesse questa estate portando quotidianemente sui media di tutto il mondo il crollo di un sistema fondato sul profitto senza scrupoli. Tutto il mondo ha avuto modo di leggere e capire che l’idea di un mondo destinato a sorti sempre più progressive grazie a un capitalismo senza freni era una tragica balla. Tutti hanno scoperto i trucchi della finanza, hanno potuto vedere che i giganti del credito sarebbero falliti senza l’intervento delle banche centrali e dello stato. Così la realtà ha tolto un po’ di quell’effetto sorpresa che è una delle caratteristiche del cinema di Moore.
Resta il suo stile peculiare di documentarista figlio della working class che mescola realtà a un umorismo da stand up comedian. Eccolo allora fuori da Wall Street che con un megafono chiede indietro i soldi, oppure mettere in crisi ben tre studiosi chiedendogli di spiegargli in termini semplici cosa siano i famigerati derivati, i titoli tossici. Tutti e tre falliscono miseramente.
Moore ci fa sapere che quell’uno per cento di americani super ricchi, di cui fa parte la schiera di geni della finanza che ci ha portato alla rovina, possiede di più della somma del capitale del 95% della popolazione povera messo insieme. Ci dice anche che le aziende stipulano assicurazioni sulla morte dei propri dipendenti: quando un lavoratore muore la compagnia incassa un premio, i familiari neanche una lira e che due terzi dei fallimenti individuali in America sono provocati dai costi insostenibili del sistema sanitario.
Tutto funziona bene nel film: forse siamo noi che siamo troppo informati. Basta aver seguito la cronache della feroce resistenza che Obama sta incontrando nel suo tentativo di dare agli Stati Uniti un sistema sanitario nazionale per conoscere l’indegno stato delle cose.
Non mancano i colpi di scena, come il video di Roosevelt, mai visto (il presidente era troppo malato), che chiede un Second Bill of Rights for Americans che sono il diritto alla casa, al lavoro, istruzione, assistenza sanitaria. Roosevelt è morto nel 1945: 64 anni dopo la crisi finanziaria ha tolto agli americani la casa, il lavoro, la scuola mentre l’assistenza sanitaria è al centro di una battaglia politica.
Il cinema di Michael Moore resta comunque un potente anticorpo contro un ordine mondiale arrivato a un passo dal big bang suggerendoci una domanda: quante volte ciascuno di noi ha pensato di voler essere nei panni dei super ricchi di Wall Street?
Paolo Biamonte