Female prisoner #701: Scorpion (1972)

Aggiornato il Luglio 2, 2009 da Il Guru dei Film

Film: Female prisoner #701: Scorpion (1972)Il primo episodio della serie “Female prisoner Scorpion” è uno dei migliori esempi dell’exploitation giapponese anni 70 densa di erotismo e violenza.

 

La giovane Nami Matsushima (Meiko Kaji) è rinchiusa in un carcere femminile di massima sicurezza in seguito al tradimento del suo uomo Sugimi, un detective corrotto dalla yakuza, che l’ha invischiata in un’operazione anti-droga finita male. All’interno del carcere le donne subiscono umiliazioni e violenze di ogni tipo, Nami rifiuta di testimoniare contro Sugimi che per evitare ulteriori problemi organizza l’uccisione della ragazza obbligando una detenuta ad entrare in azione. Nami progetta una fuga per attuare una tremenda vendetta.

Tratto da un manga di successo creato da Toru Shinohara il film prodotto dalla mitica Toei è considerato un classico del “Pinky violence” giapponese, una variante violenta dei Pinku eiga (film erotici softcore), che viene anche ricordato per essere uno dei precursori del filone “women in prison” divenuto popolare negli anni 70. Non solo, “Female prisoner #701 Scorpion“, è anche un film sulla vendetta di una donna maltrattata, finita in un incubo di violenze e torture dal quale è impossibile risvegliarsi.

La pellicola ha il merito di rivelare al mondo la bellezza ipnotica di Meiko Kaji, una delle più belle attrici orientali mai apparse su schermo, una donna dal corpo sinuoso e sguardo penetrante impreziositi da una cascata di splendidi capelli neri. L’attrice è reduce dalla serie “Stray Cat Rock” sulle gang giovanili giapponesi, nel 1973 interpreta il celebre martial art-movie “Lady Snowblood“. Il film è anche la prima opera di Shunya Ito che inizia una personale trilogia sul personaggio di Scorpion, l’eroina di un mondo impazzito e violento.

Lo stile adottato da Ito riprende la tecnica di maestri come Seijun Suzuki (“La farfalla sul mirino“, “Vagabondo a Tokio“), per il surrealismo e la carica artistica di intere sequenze, e Mario Bava (“I tre volti della paura“) nell’utilizzo disinvolto della fotografia densa di colori forti. Diverse riprese sono effettuate con angolazioni oblique e bizzarre come nella rappresentazione delle tavole di un manga. Il film per i tempi è piuttosto estremo, il sesso abbonda con manifestazioni deviate a base di stupri, la violenza subita da Nami per opera di un gruppo di yakuza, ma anche con sequenze lesbo sensuali e bollenti: breve ma intenso lo scambio di effusioni tra Nami e una detenuta dai capelli rossi (l’altrettanto avvenente Yoko Mihara). Le donne nel corso della pellicola subiscono umiliazioni continue, i vestiti vengono strappati letteralmente dai corpi mostrando ripetute e vulnerabili nudità che occhi maschili bramano con riplorevoli conseguenze, un durissimo atto d’accusa contro una società maschilista e impietosa che sembra giustificare ogni tipo di sopruso.